Orto: un progetto Sociale a Sant’Alberto

Premessa

Ad oggi le migliori esperienze di “Orti Sociali” nascono dalle cooperative o da aziende agricole che decidono di investire una parte delle loro risorse in sviluppo sociale.

L’ambizione del progetto sociale è stata sin da subito quello di “fare comunità”, di generare coesione e di creare “relazioni” tra soggetti differenti tra loro, sia tra le aree dove la fragilità è più evidente, sia laddove a latitare è uno spazio di socializzazione in un territorio frammentato e con poche opportunità di crescita.

Il Caseificio Buon Pastore (e Solar Farm) rappresenta, tra l’altro, un esempio virtuoso di come energia e agricoltura non solo possano coesistere ma integrarsi, offrendo possibilità di paragone, dialogo, conoscenza, un esempio efficace di salvaguardia ambientale e di tutela del territorio. La compresenza del campo fotovoltaico, assieme alle piante di frutta, alla cantina, al pascolo delle pecore e al caseificio, rappresenta un’opportunità unica, vista la vastità di terreno circostante per rendere vivo quel luogo tutti i giorni.

L’esperimento sociale di ToGether

Unire un orto biologico per produrre verdura a km0, con un progetto sociale, in un’area fragile o bisognosa della società. È stato questo l’input da cui siamo partiti per organizzare il progetto nei terreni antistanti il caseificio Buon Pastore. Per iniziare abbiamo sostanzialmente ascoltato il territorio di Sant’Alberto e Mezzano, e la necessità stringente ed urgente di rintracciare contesti sani e socializzanti per i ragazzi. I nostri partner sono state le cooperative del territorio, nella fattispecie la Cooperativa Librazione, attiva sul campo da molti anni e con cui ToGether ha iniziato a dialogare da circa un anno. È stato necessario affidarci a loro per due motivi sostanziali: il primo perché ToGether essendo una ODV, non ha risorse professionali specializzate nel lavoro sociale; la seconda perché la collaborazione ci ha permesso di consolidare e rafforzare la rete sociale con le realtà già strutturate in loco.

Da un lato quindi abbiamo potuto avvalerci della conoscenza del territorio e quindi delle problematiche relative ai giovani del posto, dall’altro abbiamo potuto portare in dote le competenze di Tozzi Green rispetto alle questioni ambientali ed offrire un luogo che da tutti è stato vissuto come un ecosistema virtuoso. La collaborazione si è avvalsa poi di tutte le esperienze del lavoro sociale, acquisite negli anni dalla Responsabile della progettazione sociale di Together, in varie regioni italiane ed in differenti ambiti di fragilità.

Il progetto ha vissuto, naturalmente, tre fasi. La prima, affrontando le prime battute in un terreno sconosciuto, (nessuno di noi aveva competenze agricole) attraverso una modalità più classica, ovvero con la partecipazione della scuola (medie e superiori), evidenziata da tutti come la fascia più scoperta in termini di servizi per i giovani. Poi gli effetti della Pandemia da Covid haimpedito di raggiungere i ragazzi della scuola.

Nella seconda fase, abbiamo pensato dunque di affidarci a realtà che avessero in prima persona ragazzi affidati dai servizi, con lo scopo di offrire loro la possibilità di fare un’esperienza di lavoro nella natura e soprattutto in un contesto, il Buon Pastore, che offre in sé un modello culturale propositivo. I ragazzi così sono entrati in un mondo, con tutte le sue complessità e caratteristiche.

Proprio l’eterogeneità del luogo, la visione integrale di quel mondo vissuto dall’interno della sua circolarità, ha rappresentato per tutti i ragazzi un valore aggiunto, difficilmente comparabile a qualsiasi altro progetto, seppure di valore.

Stare in un posto bello, curato, con un’attenzione ai particolari, a chi vive all’interno e agli ospiti, ha garantito ai ragazzi di scoprire le loro stesse potenzialità. Se un soggetto, soprattutto fragile, frequenta un posto bello carico di valori, anche il soggetto viene valorizzato.

Il successo del progetto sociale dell’orto si potrebbe indicare proprio in questa affermazione. La ricaduta per il benessere dei ragazzi passa proprio dall’esperienza concreta vissuta. Assistere al compimento equivale a viverlo con le proprie mani, con la propria responsabilità.

La sostenibilità ambientale inizia proprio da qui, non da una teoria scritta. Prendersi cura di un orto biologico, rispettando le piante e la terra, non è solo un esercizio manuale, ma ingloba l’intera persona. Ci si prende cura delle piante, come si stringono relazioni tra le persone, nello stesso modo in cui ognuno si sente cittadino (cytoien) del mondo in cui vive.

Questo è circolo virtuoso che si crea tra natura ed essere umani. Poi ovviamente c’è l’attività in senso stretto: prendersi cura e veder crescere una pianta, stare attenti che essa cresca dritta e nel caso correggerne la crescita, tenere pulito tutto attorno. Fare in modo che sia raccolta quando pronta. Questo prendersi cura aiuta i ragazzi a prendersi cura di sé.

Lavorare con altri, collaborare con un gruppo seppur ristretto di persone, per la buona riuscita di qualcosa, vederne i risultati, rappresenta un valore sociale che rende il progetto efficace. Soprattutto da un punto di vista empatico, si tratta di un’attività che cambia i ragazzi. Ognuno di loro, porta con sé l’esperienza e la trasforma in altro, in qualcosa di altrettanto buono per sé e per l’altro che incontra.

Due ragazzini, di un centro diurno della cooperativa, in particolare hanno lavorato tutta l’estate all’orto, con la loro educatrice. Per due mattine a settimana sono rimasti a contatto con la natura, hanno potuto mangiare la frutta dagli alberi, sporcandosi le mani, e bagnandosi la schiena di sudore. L’orto era diventato un modo magico, con la signora ape e la signora cavalletta, da incontrare al mattino e abitare per un paio di ore. Cura e benessere primordiali che hanno permesso di vivere l’avventura come qualcosa di unico, di proprio.

La concomitanza con il Centro Ricreativo Estivo ha reso poi ancora più eterogena e variegata l’appartenenza. I due gruppi si sono mischiati, hanno collaborato formando una piccola comunità.

La terza fase è stata quella emotivamente più intensa. Tre ragazzi. Due minori stranieri non accompagnati (accolti in una struttura del territorio che si occupa del loro inserimento sociale) ed un ragazzo, poco più grande di loro diplomato alla scuola agraria. Gabriele, il loro educatore, a conclusione di ogni giornata con un breve report ci ha offerto il senso di come un luogo (e tutto il suo mondo) sia in grado di offrire esperienze di auto emancipazione, integrazione e bellezza.

Questa mattina con i ragazzi abbiamo finalmente realizzato i cartellini e iniziato a piantarli lungo le varie file: i ragazzi hanno dimostrato di avere notevoli capacità manuali individuali e di collaborazione per portare a termine il compito e un grado di alfabetizzazione sufficiente nella scelta/riproduzione dei caratteri da riportare sui vari cartellini. La cosa che trovo piacevole e molto positiva è che i ragazzi raccontino usanze e storie legate alla loro terra e al loro passato, come ad esempio il viaggio affrontato in Italia: avverto fiducia e un senso di sicurezza e spensieratezza da parte loro in mia presenza, rispondono bene ad ogni iniziativa del progetto.

Andrea si è inserito benissimo: ha molte conoscenze sugli alberi da frutto, sulle coltivazioni e ci ha aiutato a identificare gli ortaggi più a rischio e come ragionare per contrastare le cause (ad esempio un cavolo è stato parzialmente recuperato nonostante l’attacco da parte di insetti oppure il discorso del fogliame giallo delle zucchine). Dopo un giro per la struttura col nuovo arrivato abbiamo iniziato a diserbare le prime file. Con l’uso di traduttori, frasi semplici e gesti siamo riusciti a rendere tutti partecipi dei vari “racconti sulla terra” e i ragazzi sono stati felici di aver avuto un nuovo membro con cui interagire.

I ragazzi sono arrivati in Italia da pochissime settimane, comunicano con il correttore di google e con i gesti. La loro esperienza all’orto sociale ha rappresentato un approdo e quasi un risarcimento “naturale” per quanto vissuto in un viaggio dai contorni indescrivibili. Una di quelle esperienze che noi solo distrattamente guardiamo dal divano di una Tv, o sulle pagine ei giornali con tanto di polemiche e critiche da parte di qualche opinionista di turno. Loro, minori non accompagnati, sono stati capaci di cogliere al volo l’opportunità che la struttura accogliente ha offerto loro. Non solo un luogo sicuro, ma un’esperienza valorizzante per il proprio “io”. Grazie al progetto “orto sociale” non hanno vissuto, come accade spesso, quel senso di sdradicamento, e spossessione della propria personalità. Lavorando la terra hanno percepito il legame tra il prima (il mare in mezzo) e il dopo. La loro genesi non è stata calpestata da un’ambiente che non poteva riconoscerli. Hanno mantenuto un nome, i loro gesti, anche il loro sapere. Sono rimasti loro stessi anche se hanno cambiato terra, il legame con la madre patria è stato sussunto dentro di loro, proprio grazie all’esperienza fatta. Non a caso, hanno raccontato al loro educatore l’esperienza del viaggio, il racconto, le loro origini della loro genia.

Come puoi testimoniare la tua presenza in un luogo sconosciuto, in qualche modo alieno? Proprio facendo cosa facevi nel tuo Paese, portando con te non solo la tua terra d’origine, ma anche te stesso, la persona che eri, costruendo i prodromi che ti consentiranno di crescere e di diventare persona in terra straniera.

Questo aspetto, vista l’esperienza vissuta con minori non accompagnati, rappresenta un passo di straordinaria importanza. Contiene in esso integrazione e benessere.

Nel poco tempo che sono rimasti al Buon Pastore, grazie all’educatore hanno iniziato a sviluppare la lingua italiana, giorno dopo giorno e quindi a parlare sempre di più. L’arrivo del ragazzo che studia agronomia ha rappresentato un momento prezioso per loro. Assieme si sono sentiti una squadra, hanno imparato da lui, dal suo sapere messo a disposizione di tutti. La presenza al Buon Pastore è diventata così, un’esperienza formativa ma allo stesso tempio giocosa, ludica. Buona per tutti.

Storie differenti che hanno saputo amalgamarsi, trasformandosi in legami umani, relazione e fiducia.

L’attività è stata percepita concretamente come un momento d’unione e non un parcheggio. Relazione, coltivazione, natura e rispetto. Questi gli ingredienti dell’esperienza che abbiamo posto in essere. Stiamo parlando di piccoli numeri, ma il benessere creatosi, difficilmente misurabile con standard qualitativi, è testimoniabile nei sorrisi e nella volontà con cui ognuno di loro ogni mattina si è recato presso i cancelli di Sant’Alberto.

I ragazzi sono stati grandiosi, hanno compreso al volo le istruzioni che ricevevano da me e Natalia e si sono messi d’impegno nelle varie attività di raccolta, innaffiatura, eliminazione erbacce; hanno molto apprezzato l’ambiente del caseificio ed erano felici di poter assaggiare la frutta degli alberi intorno al campo o di discutere sulle verdure e ortaggi che stavamo coltivando.

Nonostante l’incertezza del meteo, abbiamo pulito la carriola e utilizzata insieme ai cesti per eliminare le erbacce nella parte centrale dell’orto, specialmente quelle concentrate intorno ai finocchi e alle zucchine; in un secondo momento su suggerimento di A. abbiamo iniziato a costruire e legare i sostegni di alcune piante di pomodoro; i “prototipi” sono venuti bene quindi li estenderemo a tutti i filari.

In una giornata dal clima decisamente più fresco ci siamo dedicati esclusivamente ai pomodori: ci siamo concentrati sulla prima filiera per diserbare sia intorno alle piante che sul “passaggio”, abbiamo realizzato nuovi sostegni e sollevato le piante, legandole ai pali per evitare il contatto col suolo. Piccolo extra: i ragazzi mi hanno invitato a pranzare con loro una volta riaccompagnati in comunità, così ho potuto assaggiare un piatto del Bangladesh molto saporito!

Oggi tutto bene, l’evento è stato il completamento dei sostegni: ora sembra una piantagione! Abbiamo visto un paletto caduto nella zona del prato centrale del caseificio e lo abbiamo ripiantato simmetricamente all’altro. Abbiamo lavorato una mezz’ora in più ma i ragazzi, sebbene stanchi, erano soddisfatti